L'appuntamento
era a Ferrara. La mattina del 13 luglio, con Teresa, Fausto e Riccardo.
L'intenzione era quella di visitare alcune comunità colpite dal terremoto dello
scorso maggio, perché, a telecamere spente e lontane, si potesse dire che la
grande famiglia dell'Azione Cattolica continua a starci. Non solo attraverso
l'attenzione e l'operosità della Presidenza Nazionale e di tutte le
associazioni diocesane, ma soprattutto con coloro che non si sono fermati in
queste terre spezzate dalla sonnolento movimento dei continenti. Coloro che
quel giorno abbiamo incontrato oppure non abbiamo potuto incontrare perché
impegnati nei Campi, nei Grest, nelle attività di animazione con i ragazzi,
attorno ai campanili pericolanti o altrove. Solo questo un bel segno di speranza.
Poi
l'incontro con le persone, scandito in "come eravamo prima",
"cosa è accaduto durante", "cosa è rimasto dopo",
"cosa faremo da qui in avanti".
E il
terremoto diventa metafora di vita. Quasi "necessario" a rileggere la
propria storia nell'orizzonte della precarietà, ma anche del dover ogni giorno
ripartire con coraggio. Delle cose che non ci sono più e della vita che
comunque è puntellata dal futuro.
Durante i
trasferimenti da un centro all'altro anche qualche telefonata. Con Debora di
Ferrara, che mi aveva scritto:
Il terremoto
è strano. Tranne qualche eccezione, all'esterno tutto sembra normale e
immobile. Come se nulla fosse. Poche le case distrutte. Ma se entri dentro
trovi la desolazione. Crepe, pavimenti deformati, stanze riempite di fango,
solai crollati.
Ma ancora più strano questo terremoto che ha devastato quasi tutte le chiese.
Entrando
nella chiesa di San Michele Arcangelo a Novi, ho sentito una ferita nell’anima.
Un po’ per condividere quella di don Ivano, il parroco. Un po’ perché quella
chiesa del 1600, all’apparenza intatta ma devastata dentro, mi ha fatto pensare
alle ferite della Chiesa di oggi. Quelle provocate dalla cronaca, dalle
meschinità e dall’esperienza. Che ti viene la tentazione di dire che vale
buttare giù tutto e ricostruire da capo e di nuovo. Che ti metti a ragionare e
non sai dove mettere le mani e da che parte incominciare.
Ne avevo l’immagine
viva davanti agli occhi. Poi don Ivano infrange quella mia riflessione segreta.
Ci invita a scendere tre o quattro scalini per ammirare le antica fondamenta
della Chiesa ferita e devastata. Le pietre angolari poggiate sul terreno. Da
centinai di anni. L’unica cosa bella in quella devastazione.
Mi aveva scritto Fausto, facendo riferimento al titolo del mio libro (Dalla sacrestia a Gerico): "Le sacrestie le abbiamo lasciate, tanto sono crollate, ci rimane la speranza di puntare diritto su Gerico".
Sì. Anche tra le macerie e le ferite c’è una Chiesa viva, che attende di essere abitata in tutta la sua bellezza. Basta scendere un po’. Tornare al principio e al fondamento. Dimenticare le strutture che non sempre reggono al capriccio della natura e all’imprevedibilità del tempo. E fissare lo sguardo al cuore. E alla vita delle persone. Troverai una Vita inattesa, la Parola che guarisce ogni ferita, lo Spirito che tra le macerie fa sorgere il popolo nuovo. Oggi, non domani.
Sì. Anche tra le macerie e le ferite c’è una Chiesa viva, che attende di essere abitata in tutta la sua bellezza. Basta scendere un po’. Tornare al principio e al fondamento. Dimenticare le strutture che non sempre reggono al capriccio della natura e all’imprevedibilità del tempo. E fissare lo sguardo al cuore. E alla vita delle persone. Troverai una Vita inattesa, la Parola che guarisce ogni ferita, lo Spirito che tra le macerie fa sorgere il popolo nuovo. Oggi, non domani.
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